Elia Dalla Costa era veneto, nato a Villaverla nel 1887.
Nel 1931 diventò vescovo di Firenze. Il popolo della città imparò ben presto ad apprezzarne ed ammirarne la spiritualità, l’inflessibilità morale, la coerenza di una vita cristiana.
Nel 1938 in una lettera pastorale criticò le leggi razziali; nello stesso anno rifiutò di partecipare alla visita che Hitler fece a Firenze ed anzi fece chiudere le finestre del palazzo vescovile: “Non venero altre croci che quella di Cristo!” pare abbia detto, riferendosi alla svastica nazista. Durante le persecuzioni razziali si prodigò con la sua Chiesa per salvare gli ebrei e questo gli valse postumo il riconoscimento di Giusto delle Nazioni.
Nel 1950 un monito del S.Uffizio proibì di amministrare i sacramenti ai comunisti ed ai bimbi iscritti alle organizzazioni giovanili del partito. Dalla Costa scrisse ai suoi sacerdoti che prima di negare i sacramenti avrebbero dovuto consultarsi con lui: pur rimanendo obbediente alla Chiesa in questo modo rese inefficace il provvedimento.
Dal 1951 il siciliano Giorgio La Pira fu sindaco di Firenze e il cardinale ne appoggiò costantemente l’opera, fino a farne nel 1956 un ampio ed esplicito elogio.
Dal 1954 il governo della diocesi passò progressivamente nelle mani del vescovo coadiutore, Ermenegildo Florit. Nel 1958 Dalla Costa aprì le porte del vescovado agli operai della Galileo in sciopero, facendo propria la battaglia del sindaco La Pira in difesa della fabbrica.
Nello stesso anno la guida della diocesi passava a Florit.
Tre anni dopo nel 1961 il vecchio cardinale moriva.
Quando Elia Dalla Costa ha lasciato la cattedra fiorentina avevo sei anni, quando è morto ne avevo nove. Di lui ho dunque un ricordo molto sbiadito. Quanto in seguito ho letto mi ha fatto capire diverse cose di questa figura ieratica, ascetica, testimone di un cristianesimo rigoroso sul piano dottrinale ma aperto al sociale ed alle idee nuove. Del resto quale più alta testimonianza di integrità cristiana dell’aver chiuso le porte a Hitler in visita a Firenze?
Con Dalla Costa la chiesa fiorentina si apre ad una dimensione profetica, sia nel campo del sociale che nella mistica. Si tratta dei due aspetti complementari del cristianesimo, che procedono di pari passo, su strade solo apparentemente parallele ma in realtà emanazione di un solo cammino, di un medesimo afflato di amore per Cristo.
Elia Dalla Costa e Giorgio La Pira furono interpreti di questo cammino. Entrambi approdarono a Firenze dalle estremità opposte dell’Italia. Mi torna alla mente la Laudatio Florentinae Urbis del cancelliere umanista Leonardo Bruni, nella quale Firenze è definita la patria di tutti gli italiani che credono nella libertà e nella giustizia. Penso che Dalla Costa e La Pira abbiano trovato in Firenze questa patria.
Con La Pira Firenze tornò ad essere quella lodata da Bruni: egli calò nel sociale il vigore di una mistica profetica, la visione sublime della città come nuova Gerusalemme, ponte fra cielo e terra, faro per le genti, icona della pace mondiale. Questa visione è analoga a quella che troviamo ancora oggi affrescata nella volta del Palazzo dell’Arte dei Giudici e dei Notai: una Firenze del tardo XIV secolo, turrita, cosmica,che si avvolge come un cerchio sacro attorno agli stemmi delle arti ed agli emblemi del popolo, nella quale ricorre il numero mistico 12 che la denota figura della celeste Gerusalemme. Fu quello di La Pira il ritorno ad una visione mistica medievale? Può darsi, ma quella società aveva un profondo senso del sacro che la nostra civiltà occidentale ha dimenticato, per scivolare in un vuoto di valori riempito di suoni e miraggi che si dissolvono come fumo.
Dall’afflato profetico di Dalla Costa e La Pira emergono a Firenze grandi figure di sacerdoti che operano nel sociale e nella cultura: don Lorenzo Milani con la scuola di Barbiana, don Enzo Mazzi nella parrocchia di frontiera dell’Isolotto, Ernesto Balducci con la rivista Testimonianze, don Mario Lupori con l’esperienza di quello straordinario oratorio che fu la Cattolica Virtus. Dal 1954 la guida della diocesi stava via via passando nelle mani di Florit: forse anche per questo in quell’anno don Milani fu allontanato dalla parrocchia di Calenzano e relegato nella sperduta Barbiana.
Ma emergono anche grandi figure di mistici che esplorano ed indicano vie luminose che conducono a Dio: don Gino Bonanni, don Divo Barsotti che La Pira fece venire a Firenze da Pisa e dette vita alla Comunità dei Figli di Dio, e annovero fra loro anche il milanese servita David Maria Turoldo che con Firenze e la casa madre del suo ordine ebbe sempre stretti rapporti. E come non citare la fede profonda e gli scritti di Giovanni Papini, convertito in età matura?
Fu quella una stagione breve ed intensa, frutto della visione profetica di Dalla Costa e La Pira, che purtroppo il nuovo vescovo, Ermenegildo Florit, non comprese e guardò sempre con sospetto. Ma questa è storia nota.
Due altre figure voglio ricordare di quella stagione: Attilio Mordini e Giovanni Vannucci.
Il primo è poco conosciuto e soffre di una ingiusta damnatio memoriae, dovuta alla sua adesione alla repubblica di Salò. Eppure Mordini unì la mistica ad una grande profondità intellettuale. Egli esplorò coraggiosamente e con rigore anche le vie del simbolismo; collaborò alla rivista “L’Ultima” di Giovanni Papini, col quale era accomunato dal passato fascista e dall’essere entrambi terziari francescani; ebbe legami con Balducci, Barsotti, Turoldo, con Giovanni Vannucci con il quale ebbe affinità di sapienza, ma fu sempre ostile a La Pira che addirittura accusò di eresia. Mordini formò attorno a sé un circolo di giovani, uno dei quali diventò lo storico Franco Cardini, che ancora riconosce il debito culturale nei confronti del maestro. Morì nel 1966 il 4 ottobre, nel giorno di San Francesco, poco più che quarantenne. Avevo allora 14 anni.
Giovanni Vannucci fu come Turoldo frate servita, mistico, fondatore della comunità dell’eremo delle Stinche dove era stato costretto a ritirarsi. Morì nel 1984 ed ho il rammarico di non averlo mai conosciuto di persona, né di aver mai partecipato ai suoi incontri. Ho cominciato solo poco tempo dopo la sua morte ad interessarmi dell’arcano universo dei simboli e delle porte straordinarie che questo dischiude al mistico. Era infatti il 1986 quando scrissi tre articoli su “Il Governo” diretto da Gianni Conti, che furono il mio primo approccio a quella visione diversa della realtà, quale si ottiene solo scavando all’interno della sua invisibile intimità. Poi ho conosciuto gli scritti del padre Vannucci ed ancora oggi questi mi fanno da guida.
Giovanni Vannucci fu una figura fuori dell’ordinario, un cristiano che esplorò senza preconcetti le culture orientali, confrontandosi con le vie delle altre religioni e con il pensiero esoterico. Scrisse ad esempio di Rudolf Steiner (padre dell’Antroposofia) e di René Guenon, come di Buddismo, di Zen, di discipline orientali come lo Yoga. Tutto questo fece, senza mai indulgere a tentazioni sincretiche, ma rimanendo profondamente e totalmente cristiano ed obbediente alla Chiesa cattolica. La sua fu dunque una visione culturale aperta, un costante colloquio con le altre religioni, un’esplorazione del mondo simbolico e delle vie mistiche di tutti i tempi. Mi piace citare un brano preso dalla sua introduzione al libretto sulla preghiera esicasta, l’antica pratica dei monaci orientali che associa l’invocazione del Nome di Dio con la respirazione. E’ una preghiera che abbraccia tutta la persona, dalla mente al corpo. Noi siamo infatti un tutto indissociabile. Così Vannucci definisce questa ”la preghiera totale che coinvolge tutto l’uomo, il suo fisico,l’animico,lo spirituale”, che è quasi una citazione da San Paolo ai Tessalonicesi (5,23):”tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la Parusia del Signore nostro Gesù Cristo”. Noi tendiamo a dimenticare questa tripartizione della nostra totalità, ignorando la presenza in noi dello spirito.Ed è conseguenza della nostra perdita di senso del sacro.
Ecco dunque le parole di Vannucci, chiaro esempio del suo approccio al divino: “Il Nome di Gesù per la sua origine divina,per la Persona che significa,per la ripetizione fatta da un gran numero di credenti,è ricolmo di energie spirituali…Il Nome divino…non è un simbolo, ma è la veste del suono del Verbo eterno creatore. Oltre al suono percepibile dall’orecchio, contiene una vibrazione inaudibile con l’udito sensibile, la sua costante ripetizione permette di raggiungere la realtà divina ed ultima che contiene. Il Nome è rivestito di un potere notevole, contiene la potenza, la conoscenza divina,il desiderio che spinge Dio verso l’uomo e l’uomo verso Dio. La formula Gesù Cristo, Figlio di Dio,abbi pietà di me…non è una preghiera,un domanda – risposta, ma un incantesimo che il Nome canta nel profondo dello spirito di colui che lo ripete, e opera l’unione mistica dell’orante reintegrandolo nel mistero divino”.
Ecco questa è la mistica del nostro Giovanni Vannucci.
Dobbiamo imparare anche noi a coinvolgere il corpo nella preghiera, attraverso la respirazione. Ad esempio quando recitiamo l’Ave Maria, proviamo ad inspirare prima del saluto angelico, espiriamo via via che pronunciamo le parole, poi tratteniamo un attimo il respiro di fronte al nome santo di Gesù, perché quel Nome è eterno e non appartiene né al tempo né allo spazio; inspiriamo di nuovo prima dell’invocazione alla Madre di Dio ed espiriamo fino all’Amen conclusivo. Recitiamo la preghiera ad alta voce, perché il respiro si condensa in parola, la parola vibra portando con sé l’energia della preghiera e la effonde nel continuo spirituale che ci avvolge, allontanandone il male.
La mistica ebraica ha trovato un’immagine molto bella per evidenziare questa potenza della preghiera: “L’individuo che prega o rivolge la sua mente verso il Divino, nel far ciò dà origine a un angelo, il che è come un protendersi da parte dell’uomo verso i mondi superiori. Questo angelo, legato nella sua essenza all’uomo che lo ha creato,vive tuttavia in una diversa dimensione dell’essere” (Adin Steinsaltz La rosa dai dodici petali. Un incontro con la mistica ebraica, Firenze Giuntina 2000,p.16).
E’ un concetto non dissimile da quanto troviamo nel Poimandres, l’antico testo ermetico, che si conclude con un inno a Dio padre, al quale non si offrono sacrifici di animali, ma quello puro e santo della parola: “Accogli la pura offerta sacrificale della parola che viene da un’anima e da un cuore protesi verso di Te; Tu, ineffabile,indicibile, Tu, il cui nome è pronunciato solo dal silenzio”(Poimandres, 31).
Cosa accomuna questi due brani così distanti nel tempo? E’ la tradizione sacra antichissima, secondo cui la parola emessa con la preghiera diventa un’entità vivente. Allora anche noi quando recitiamo l’Ave, osserviamo le nostre parole che si trasformano in offerta deposta ai piedi della Vergine o in angeli che si dispongono attorno al suo trono.
Questa è dunque la sorgente sotterranea che Elia Dalla Costa ha lasciato scaturire perché da Firenze la terra ne fosse irrorata, sorgente trasformata ben presto in un fiume impetuoso che il suo successore ha cercato di arginare, perché non riusciva a comprenderlo. E’ strada che il vecchio cardinale ci ha lasciato da percorrere, quella di un Cristianesimo aperto ai problemi sociali,fatto di carità e fraterna solidarietà, che non teme l’incontro con le altre culture laiche e religiose, perché il Vangelo possiede una verità che il confronto non può che rendere più luminosa; e soprattutto il Vangelo non teme la mistica, che spaventa invece quei sacerdoti, e non sono pochi, i quali non sanno essere niente più che assistenti sociali. E’ questa di Elia Dalla Costa e di La Pira una strada piena di ostacoli, irta di derisioni e di sospetti da parte anche di uomini di Chiesa, ma è la via che rende unica da secoli la nostra città.