(Questo breve saggio è stato pubblicato nel 2004 sul periodico Il Governo delle Cose, n.28 alle pagine 47-52. E’ strettamente legato al precedente post e, soprattutto, al romanzo Il Segreto di San Miniato, che venivo completando in quel periodo).
Nel medioevo occidentale, l’ermetismo era conosciuto attraverso un dialogo fra Ermete ed il discepolo Asclepio, del quale esisteva una versione latina. Gli altri testi ermetici, conservati nelle biblioteche bizantine, erano tutti scritti in greco ed inaccessibili. “L’Asclepio”, questo il titolo del dialogo, fu dunque l’unica fonte disponibile in occidente, finché Marsilio Ficino, in pieno Umanesimo, non tradusse per Cosimo dei Medici altri libri fatti venire da Bisanzio. Il Rinascimento vide così la riscoperta e la nuova fortuna dei testi ermetici, ritenuti depositari di una verità ancestrale, cioè la fede in un Dio unico che prefigurava la rivelazione cristiana. Per gli umanisti, il cristianesimo non rinnegava infatti la sapienza antica, ma la portava a perfetto compimento.
L’ermetismo prendeva il nome da un personaggio mitico, l’egiziano Ermete Trismegisto, ossia il Tre volte Grande, al cui insegnamento si attribuivano testi che in realtà erano stati composti in epoca ellenistica e romana. Nell’ermetismo vennero a confluire l’antica tradizione egiziana e quelle neoplatonica e pitagorica, finché nei primi secoli dell’era cristiana esso finì per dissolversi nel multiforme universo della gnosi, forse di pari passo con la progressiva scomparsa degli antichi sacerdoti egizi, e con loro della conoscenza dei geroglifici.
Nel fertile sincretismo religioso che caratterizzò l’impero romano, le divinità dei numerosi popoli soggetti a Roma venivano ricondotte ad emanazioni di un unico Principio, del quale il sole era l’immagine e l’imperatore lo specchio. Così si diffusero il culto misterico di Iside, nel quale a loro volta confluirono tradizioni e riti di varia provenienza mediterranea, e quello di Mitra, nel cui culto solare la tradizione persiana e zoroastriana si accostava a quella egiziana, fornendo molti elementi al nuovo simbolismo imperiale. Comune denominatore di tutte le forme di culto era l’ansia salvifica, che si traduceva in una ricerca di tipo gnostico, ossia nel tentativo di conseguire la conoscenza di Dio nel profondo di sé. Fu questo l’humus religioso, la pienezza dei tempi, nella quale si impiantò il cristianesimo che, divenendo in poco tempo la religione unificante dell’impero, accolse trasfigurandoli simboli, temi e riti delle varie tradizioni.
Nei testi ermetici si trova spesso il riferimento alla sacralità del linguaggio, che proveniva direttamente dalla tradizione egizia. Essendo l’uomo creato a somiglianza di Dio, anche la sua parola doveva essere un riflesso di quella divina. La parola era dunque ritenuta un prodigio che, attraverso una sottile vibrazione dell’aria, dava esistenza al pensiero. Essa era immagine di quel movimento, esterno al tempo ed allo spazio, con cui il Pensiero si era manifestato nella Parola ed aveva creato l’universo, risuonando in Hyle, la materia increata, non dissimile dalle acque della Genesi sulle quali aleggiava silenzioso lo Spirito. Così il cosmo aveva ricevuto un ordine per mezzo della Parola, cioè era stato ordinato secondo un’armonia musicale.
La bocca era ritenuta di conseguenza il centro della persona, in quanto organo che emette la parola e l’energia che essa trasporta. L’antica concezione egizia della vitalità della parola permeò profondamente la cultura del vicino oriente e la stessa mistica ebraica: ogni parola era ritenuta atto potenzialmente magico e quella sacra, cioè la preghiera, un’emanazione di energia spirituale. La qabbalah ebraica ritiene ancora oggi che la preghiera abbia in sé il potere di generare entità spirituali, veri angeli che acquistano un’esistenza autonoma e diffondono il bene nel mondo. Dal lato opposto, che le maledizioni diano vita invece a demoni, che operano per la vittoria del male.
Il Pimandro, uno dei testi ermetici più celebri, si conclude in un inno sublime:
“Santo è Dio, padre di tutte le cose.
Santo è Dio, la cui volontà tutte le sue potenze eseguono.
Santo è Dio, che vuole essere conosciuto e che si fa conoscere da chi gli appartiene.
Santo sei Tu, che hai creato gli esseri con la Parola.
Santo sei Tu, del quale la natura intera è l’immagine.
Santo sei Tu, non formato dalla natura.
Santo sei Tu, che sei più forte di ogni potenza.
Santo sei Tu, che sei al di sopra di tutto ciò che eccelle.
Santo sei Tu, che superi ogni lode.
Accogli la pura offerta sacrificale della parola, che viene da un’anima e da un cuore protesi verso di Te.
Tu, ineffabile, indicibile, Tu, il cui Nome è pronunziato solo dal silenzio”.
La parola è definita un’offerta, superiore ai sacrifici animali, perché in essa ha acquistato vita il pensiero proteso verso Dio. Nell’inno del Pimandro, per nove volte è ripetuta l’invocazione del Santo. Secondo la concezione ebraica ed egiziana, con questa proclamazione, che unisce il potere della Parola a quello dei numeri in cui si esprime la potenza creatrice, per nove volte si elevano angeli al cospetto di Dio.
E’ di particolare interesse anche una riflessione sulla scrittura geroglifica: la parola Ren, che vuol dire nome, inizia con la lettera R, che è rappresentata da una bocca. Il nome aveva per gli egiziani un profondo valore sacro: l’essenza di ogni vivente si racchiudeva nel suo nome, e questo valeva soprattutto per le persone. Anche nella Genesi, influenzata probabilmente dalla concezione egizia, si legge come Iddio concedesse all’uomo di imporre il nome ad ogni specie vivente, affidandogli così il dominio e la custodia di ogni altro essere. Le donne egiziane davano ai loro figli, oltre a quello ufficiale, un nome segreto che rivelavano solo alla maggiore età, perché chi avesse conosciuto il vero nome del bambino, ne sarebbe divenuto padrone. Che dunque nei geroglifici nome iniziasse con il segno di una bocca, significa che esso era ritenuto parola sacra, nella quale si concentra l’energia vitale dell’individuo. Per questo stesso motivo fra gli Ebrei il Nome di Dio non poteva essere pronunciato, perché se l’uomo avesse tentato di impossessarsi dell’essenza dell’Incontenibile, ne sarebbe rimasto consumato. Riecheggiano i versi del Pimandro: “… Tu, il cui Nome è pronunziato solo dal silenzio”.
Anche la parola Ra, cioè Sole, inizia con la stessa lettera R, e praticamente vi si identifica, inducendo a pensare che il sole fosse ritenuto la bocca del cielo, la porta del mondo divino, attraverso la quale l’energia della Parola creatrice si effonde sulla terra. I neoplatonici, in modo non dissimile, ritenevano che nel solstizio di estate le anime discendessero dal cielo sui raggi del sole e così fossero introdotte nell’esistenza. E’ giusto ricordare come i cristiani fin dalle origini abbiano trasposto su Cristo il simbolismo solare, legando la figura dell’astro fonte di vita alla Parola creatrice.
La bocca è anche una porta che consente l’ingresso all’energia vitale. Non solo per il respiro, che dalle narici è comunque costretto a passare attraverso la bocca,ma anche per il cibo. Da questa consapevolezza deriva la tradizione della benedizione del pasto, che ne rimarca la sacralità: mangiando il pane, gli antichi erano convinti di assumere l’energia spirituale della terra, e cibandosi della carne di ricevere uno spirito ancora più forte, perché proveniente da un essere animato. E’ questo il significato dei banchetti sacri, che concludevano molti riti misterici. Tertulliano accusò i seguaci di Mitra di scopiazzare l’eucaristia cristiana, ma probabilmente l’offerta e la consumazione sacra del pane esprimevano anche in quel caso l’antica consapevolezza del ruolo sovrannaturale della bocca, come porta dell’energia vitale.
I testi ermetici ripetono spesso che, come esiste un cibo materiale, così ne esiste anche uno spirituale. E’ questo il motivo per il quale Cristo digiunò 40 giorni prima dell’inizio della sua missione, digiuno che dovrebbe essere ripetuto in ogni quaresima che precede la Pasqua. Il digiuno libera il corpo dallo spirito presente nella natura, assorbito col cibo, e consente all’uomo di diventare un vaso vuoto, pronto ad accogliere le forme superiori e più potenti in cui esso discende. Questo Vaso si caricherà allora di un’energia che proviene dal cielo e non dalla terra, di una forza più sottile ed intensa, che è quella stessa di cui si cibano gli angeli.
Sia nel caso dell’energia naturale che di quella celeste, è sempre la bocca a ricevere e trasmettere la potenza vitale. I corpi degli antichi egiziani venivano mummificati con la bocca aperta, si crede per essere in grado di pronunciare la parola di passo che consentisse di superare le porte d’oltretomba, ma forse anche per ricevere lo spirito, che avrebbe ridato loro la vita. Così il Signore invitò Ezechiele a cibarsi del rotolo scritto che trasportava il Verbo ed egli ubbidì, provando in bocca la dolcezza del miele e divenendo profeta. Così l’arcangelo Gabriele impresse sulla bocca di Maometto il libro della rivelazione divina.
In antico era diffusa la consapevolezza che si potessero fabbricare talismani in grado di assorbire lo spirito proveniente dalle stelle e dai pianeti, che la potenza della preghiera e del rito potesse animare anche un simulacro:
“Vi sono statue con un’anima, una coscienza, che ripiene di spirito fanno cose stupende e grandiose. I nostri avi, dopo aver evocato le anime degli angeli, le introducevano nei loro idoli attraverso dei riti santi e divini in modo che questi idoli avessero il potere di fare il bene”.
Così recita l’Asclepio, ma la Qabbalah esprime la stessa consapevolezza nel mito del Golem, l’automa di terra nel quale la parola sacra aveva infuso la vita. In alcune immagini si riteneva presente un’anima che procede direttamente da Dio, un’intelligenza di natura angelica, che introduce chi la contempla nei sentieri dell’invisibile. Florenskij, filosofo e mistico russo, scriveva che alcune icone, per il modo rituale in cui sono state dipinte, sono porte aperte sulla dimensione dell’eternità e vi appartengono. Che in esse dunque può celarsi un’anima angelica.
La particolare sacralità di alcune icone e di alcuni santuari è forse legata alle preghiere incessanti, che per secoli vi hanno riversato la loro energia spirituale. Qualche tempo fa il Dalai Lama, in visita a San Miniato al Monte, elogiò la sacralità della basilica, riferendola ai secoli di devozione e di preghiera che aveva accolto.
Il nostro mondo, assetato di sovrannaturale e di magia, beve avidamente questi argomenti e tutto ciò che proviene dall’antica sapienza. Ma torna ad essere dubbioso e prigioniero di una razionalità distorta, quando si accosta alle verità del cristianesimo. Si preferisce accettare l’esistenza di talismani e di influssi astrali, piuttosto che ammettere la realtà sovrannaturale dell’eucaristia. Ebbene, a volte si resta attoniti di fronte alla noncuranza con cui molti cattolici prendono l’ostia fra le mani, magari poco pulite, e la maneggiano per la chiesa prima di portarla alla bocca. E’ così difficile credere che l’ostia consacrata sia animata dal Verbo? Che l’eucaristia non sia semplicemente un atto simbolico?
Gli umanisti, che leggevano con ammirazione i testi ermetici, non dubitavano che nell’eucaristia avvenisse quanto nell’Asclepio era stato, a loro pensare, misteriosamente profetizzato, cioè che fosse offerto al Verbo un nuovo corpo. Che nel rito, purché celebrato nelle forme della Tradizione, Iddio animasse quell’esile simulacro, fatto di pane, con la Parola eterna. Che infine cibandosi di esso, con il cuore libero e il corpo astenuto da ogni altro alimento, l’uomo ne ricevesse una possente forza spirituale. Per entrare in noi, al Verbo si addice infatti l’ingresso del palato, l’organo proprio della Parola, che la natura ha protetto più degli altri dalle contaminazioni esterne. Questo era per gli umanisti il significato mistico del Cantico di Salomone, ove sta scritto: Baciami con il bacio della tua bocca.
Le folle che seguivano il Cristo potevano ascoltarlo, vederlo, toccarlo. E la forza celeste che era in Lui, immensa, superiore ad ogni immaginazione, poteva trasmettersi loro e risanare le malattie del corpo e quelle dell’anima. Il tocco della sua mano, la sua parola, il suo sguardo, infondevano quest’energia possente, la stessa per la quale il cosmo era stato creato e grazie alla quale continua ancora oggi a vivere ed a rigenerarsi.
Chi si accosta all’eucarestia usi dunque l’occhio del cuore, quello che svela la realtà nascosta dietro l’apparenza, e contempli davanti a sé la figura del Maestro, viva e reale come quella che vedevano le folle. Si avvicini, con emozione e fiducia. Inchini il ginocchio, perché sta scritto che davanti al Suo Nome ogni ginocchio si piegherà, nei cieli, nella terra e nell’inferno. Allora, quando prenderà il pane, avvertirà il Suo sguardo sereno, vedrà il Suo sorriso, sentirà la Sua mano posarsi dolcemente sulla sommità del capo ed infondervi,con una pressione appena percettibile, la Sua potenza. Se contemplerà tutto questo, qualunque cosa buona egli chiederà in quel momento, non dubito che gli sarà concessa.