Il Corriere della Sera dell’11 agosto ha riportato dichiarazioni di Valter Mainetti amministratore delegato di Sorgente Group: “La crisi del settore immobiliare è di portata tale che occorrono cambiamenti radicali. Non bastano segnali isolati, sia pure rilevanti…Soltanto la ripresa del settore dell’edilizia permetterà l’uscita definitiva dalla crisi. In caso contrario i primi segnali di miglioramento sono destinati a restare tali”.
In Italia il settore trainante dell’economia è sempre stato quello dell’edilizia. E nonostante i tentativi di sviluppo del settore tecnologico, le cose non sono ancora cambiate. Senza quella dell’edilizia non si avrà dunque una ripresa economica reale. Il Governo si è proposto così di sbloccare la realizzazione di grandi infrastrutture. Ma l’edilizia non è fatta solo di grandi opere pubbliche, che sono appannaggio di gruppi imprenditoriali di grosse dimensioni dei quali ormai la nostra Toscana è del tutto priva: l’edilizia è soprattutto un insieme di interventi piccoli e medi sostenuti da un diffuso tessuto di imprenditoria privata. Questo tessuto è in crisi e va aiutato, liberandosi di un antico preconcetto della sinistra: quello di ritenere ogni impresario edile uno speculatore, facendo salve solo le cooperative che, almeno sulla carta, speculazioni non dovrebbero farne.
Ma è davvero così? Ci sono ancora i palazzinari degli anni ’60? E chi stabilisce qual’è il confine fra giusto guadagno di impresa e speculazione: è un confine etico o di percentuale di guadagno? Oggi i guadagni di impresa, sia negli appalti che nella libera imprenditoria, rientrano spesso in più che legittime percentuali ad una sola cifra. A mio parere il confine è dunque solo etico e consiste nella prevaricazione dell’interesse pubblico da parte di quello privato. Ma l’etica è difficile da imporre per legge, senza colpire anche gli onesti. Beninteso il malaffare è un’altra cosa e mi riferisco alla corruzione, che è il cancro dei grandi appalti e del meccanismo nefasto delle aste al massimo ribasso. Io parlo dell’edilizia onesta, che si muove nel rispetto delle leggi e delle regole. A questa non viene dato spazio né ossigeno.
Le regole, già, le regole…Parliamo di queste regole.
Il settore dell’edilizia non è fiaccato solo dalle tasse sugli immobili, ma anche da norme puntigliose, anacronistiche, ottuse che nessun governo e nessuna amministrazione pubblica cerca di snellire o di ridurre. Semmai alle vecchie se ne aggiungono sempre di nuove, spesso ancora più illogiche, che si sovrappongono creando un coacervo inestricabile. Le leggi rinviano a regolamenti, i regolamenti rimandano a circolari, le circolari a loro volta hanno necessità di interpretazioni autentiche; quindi ci sono i piani strategici, i piani regionali e provinciali, costituiti da volumi di centinaia di pagine; i piani comunali, quello strutturale e quello operativo, infine i regolamenti edilizi e, come si sa, le regole comunali cambiano anche fra territori contermini.
I governi che si sono fin qui succeduti si sono ben guardati dal mettere mano ad una semplificazione legislativa, hanno piuttosto cercato di snellire le procedure, consentendo ai professionisti di attestare il rispetto delle norme. In questo modo hanno alleggerito la responsabilità dei funzionari pubblici, ma l’hanno caricata sulle spalle degli operatori. Il problema più frequente che questi incontrano non è l’osservanza delle regole, ma la loro interpretazione. Il funzionario pubblico può interpretare le norme e definirne l’applicazione. Il professionista no. Egli cerca dunque di usare il buon senso, salvo poi scontrarsi con l’interpretazione diversa che ne dà il funzionario. Il professionista assevera con la SCIA che il suo progetto rispetta le leggi, i regolamenti, le norme, le circolari e lo fa perché ne è convinto. Poi vede recapitarsi una lettera minacciosa che gli sospende i lavori, perché il funzionario del comune ha interpretato il groviglio in altro modo. E a Firenze non basta essere andati prima a confrontarsi con un tecnico del servizio edilizia privata, perché ciò che viene detto a voce non ha valore e varie volte viene poi smentito. Allora non resta altra strada che quella lunga e costosa del ricorso al TAR.
Nel frattempo i lavori si fermano.
Lo snellimento delle procedure e l’asseverazione di un professionista hanno necessità di norme certe e chiare, dove il margine di discrezionalità sia ridotto a zero, o a zero virgola qualcosa. Oggi questi margini sono con percentuali a due cifre.
Il comune di Firenze è da questo punto di vista in cima alla classifica dei comuni con minor chiarezza. Avevamo un Piano Regolatore dotato di norme abbastanza comprensibili e un Regolamento Edilizio accettabile. Poi il sindaco Renzi ha adottato un Piano Strutturale a volumi zero, imponendo un principio di per sé condivisibile che anticipava la nuova linea della Regione Toscana. Anche la Regione infatti, con la nuova legge urbanistica 65 del 2014, ha sancito il principio dell’inedificabilità di tutti i suoli che non siano già urbanizzati. Sia la legge regionale che il piano strutturale di Renzi implicano una forte politica di riqualificazione urbana, di recupero di aree dimesse, di ristrutturazioni, di sostituzioni edilizie. Una visione dunque dinamica del recupero e della trasformazione urbana.
Firenze al contrario ha attuato un Piano Strutturale finalizzato al recupero, predisponendo ed approvando un Regolamento Urbanistico che va nella direzione opposta, che torna ad una visione urbanistica obsoleta, quella degli anni ’70 del secolo scorso la quale cercava con ogni mezzo di limitare la speculazione edilizia. A Firenze il recupero urbano è diventato così quasi impossibile e quello edilizio viene scoraggiato da regole anacronistiche.
Ho denunciato le lacune e gli errori del Regolamento Urbanistico di Firenze in un articolo apparso sul numero 126 di questa rivista e nella tavola rotonda che organizzammo presso il Consiglio Regionale, presente l’allora assessore Meucci ed il presidente dell’Ordine degli Architetti di Firenze. Denunciammo già in quella sede il meccanismo velleitario dei cosiddetti “comparti a ponte”, cioè di quei complessi edilizi dimessi che il comune vuole siano demoliti e spostati altrove. In teoria si tratta di un principio più che giusto, ma viziato dalla pretesa di imporre le aree sulle quali dovrà avvenire lo spostamento, aree che sono private e non pubbliche. La bella teoria si dimentica di fare i conti con i proprietari. Oltretutto indici delle aree di “atterraggio” e volumi da spostare non coincidono mai. Ne consegue che se anche i rispettivi proprietari trovassero un accordo, altamente improbabile viste le regole dell’economia, non si capisce i volumi che avanzano o che mancano che fine farebbero o dove si andrebbero a trovare.
Denunciammo il fatto che proprio in centro il Regolamento Urbanistico proibisca il cambio di destinazione dei complessi interni agli isolati per ricavarne abitazioni. Da una parte si sbandiera la volontà di far tornare gli abitanti nel centro storico, dall’altra lo si proibisce.
Denunciammo il fatto che ai frazionamenti di appartamenti si imponga di trovare parcheggi, cosiddetti stanziali, che non trovano riscontro in alcuna disposizione di legge, ben sapendo che in centro questo è impossibile.
E così via. L’elenco dei paletti che a Firenze impediscono oggi il recupero sono innumerevoli. I piani urbanistici devono essere fatti da chi ha esperienza di progettazione edilizia, altrimenti rischiano di esser viziati da teoria ed ideologia che non sanno confrontarsi con la pratica.
Firenze non si è limitata al Regolamento Urbanistico: si è fatto un nuovo Regolamento Edilizio che introduce elementi di inaccettabile discrezionalità nell’esame dei progetti, ovviamente incompatibile con il principio di legge dell’asseverazione del professionista. Si è così tornati indietro di decenni. Vi spiego come e perché.
E’ stato introdotto nel Capitolo delle Norme che riguarda la Tutela dell’Immagine Urbana un art.75, che prescrive il parere della commissione edilizia sulle modifiche delle facciate. L’obbligo è esteso arbitrariamente anche dove non si può parlare di tutela dell’immagine urbana, come il capitolo di cui fa parte dovrebbe suggerire, perché viene imposto anche al di fuori del territorio urbanizzato: nella campagna, nelle colline, addirittura nelle facciate interne agli isolati, non visibili da strade o spazi pubblici. Il comune applica la norme in modo letterale: non si limita a tutelare il mantenimento dell’assetto complessivo della facciata, perché spesso bastano operazioni apparentemente ininfluenti o lievi spostamenti di finestre per far scattare la sospensione dei lavori. So per esempio di una SCIA bloccata perché la commissione edilizia voleva un parapetto pieno al posto di una ringhiera.
Si comprende subito come la discrezionalità della commissione sia incompatibile col meccanismo della SCIA, perché un professionista può asseverare la rispondenza del suo progetto alle norme ed alle leggi non al soggettivo giudizio di una commissione. Accade così che il proprietario si veda sospendere i lavori, asseverati in buona fede dal suo professionista, perché alla commissione non piacciono le modifiche che ha introdotto nelle facciate, anche se ammesse dalle norme. Per ovviare al problema, l’art.75 consente al progettista di richiedere, prima di asseverare la SCIA, un parere preventivo alla commissione. Peccato che per avere questo parere ci vogliano mesi, annullando così la finalità che il legislatore ha attribuito alla SCIA, cioè quella di far partire subito i lavori.
Ma non è tutto: l’art.75 viene imposto anche nelle zone a vincolo paesaggistico, dove cioè la tutela è competenza della Soprintendenza su parere espresso da un’altra commissione comunale, quella Paesaggistica. Due organi del comune, anzi dello stesso ufficio, si sovrappongono e possono entrare in collisione, perché è successo più volte che la commissione edilizia abbia riformato il parere di quella paesaggistica e della stessa Soprintendenza. Il che appare non solo assurdo, ma di dubbia legittimità. E non ho ancora finito: se per l’autorizzazione paesaggistica la legge impone tempi certi per la risposta, per il parere preventivo della commissione edilizia non è previsto alcun termine. E’ legittima questa disparità di trattamento? Questo aggiramento delle leggi che impongono tempi certi per le pratiche edilizie?
Dunque la gestione dell’Urbanistica a Firenze sta conducendo ad un blocco totale dell’attività edilizia: da una parte un Regolamento Urbanistico che inibisce la maggior parte degli interventi di recupero, dall’altra un Regolamento Edilizio che introduce meccanismi di una fallace tutela viziati nella logica e nella legittimità. E’ così che si presume di incentivare l’attività imprenditoriale? O la volontà inespressa è proprio quella di impedirla? E Matteo Renzi, quando ha varato un Piano Strutturale a volumi zero, aveva previsto tutto questo?