Questo testo è apparso nel catalogo della mostra “Semi di pace. Suoni di pietra. Città sonore” a Firenze nel chiostro di Santa Croce dall’8 al 13 ottobre 2013.
Il catalogo “Ascoltare la pietra. Sculture di Pinuccio Sciola” è edito da Gangemi.
Era da lunga data che leggevo e sentivo parlare di Pinuccio Sciola, l’artista che fa cantare la pietra. Mi ripromettevo da tempo di andare a San Sperate, il paese sardo dove è nato e dove lavora. Sono partito così con mia moglie Manuela, senza programmarlo, come sempre faccio io, d’impulso, in una tarda mattinata di agosto.
Sulla superstrada 131, che collega Cagliari con Sassari ed è l’asse portante della Sardegna, i cartelli per San Sperate segnalano soprattutto centri commerciali. Lasciata la 131, le strade che percorriamo, seguendo indicazioni evanescenti, attraversano una campagna assolata ma fertile, ricca di orti e di frutteti, fatta di una pianura leggermente ondulata, sullo sfondo della quale si stagliano i monti aspri dell’isola. Superando via via case sparse, banchi improvvisati lungo la strada dove si vendono verdura e frutta, indicazioni stradali non sempre attendibili né logiche, giungiamo infine alla periferia del paese. San Sperate è un paese museo, nel quale da ogni parte del mondo sono stati chiamati artisti a lasciare un segno, anno dopo anno, attraverso la pittura di murales sulle facciate delle case e sui muri delle strade. Non c’è quasi via, non c’è quasi facciata che non sia un’opera d’arte.
Le case, basse, sono quelle tipiche del Campidano, affacciate su una corte chiusa da un alto muro nel quale si apre il portale carrabile, impreziosito da due battenti di legno modanati e spesso ricchi di decorazioni, che rendono impenetrabile l’interno alla vista di chi passa dalla strada. Così ogni casa è un piccolo mondo concluso, come le “insulae” degli antichi romani. C’è molto dell’epoca romana in questa Sardegna, come se i secoli non fossero passati.
Quando arriviamo, sul finire della mattinata, il paese è silenzioso, quasi deserto. Non c’è una bottega aperta, tutto è sbarrato. La gente è chiusa nella case; ogni tanto passa qualcuno in bicicletta, ma scompare subito alla vista con pedalate frettolose. Su una piazza un po’ più grande vediamo un bar con una loggia ombrosa, qualche tavolino di plastica ed un paio di avventori. Entriamo sperando di trovare qualcosa da mangiare e soprattutto di ricevere un’indicazione per trovare la casa museo di Sciola. Il barista è cortese, ma da mangiare c’è ben poco: un tramezzino di pane in cassetta che ha conosciuto tempi migliori. Optiamo per un semplice bicchiere di acqua.
“La casa di Sciola? Avanti, poi a sinistra fino alla piazza di Santa Lucia. Lì parcheggiate e dopo pochi passi in discesa la trovate davanti”, ci spiega gentile il barista.
Costeggiando le facciate dipinte di un paese silenzioso, lindo e pulito, dove tutto è ordinato, raggiungiamo la piazza, che in realtà piazza non è ma un semplice slargo formato dall’incrocio di strade strette senza marciapiedi, su un lato del quale, dietro un cancello e un breve giardino polveroso, si scorge una chiesetta antica. Ha una breve facciata sormontata da un modesto campanile a vela, un portale aragonese sul quale si scorgono una conchiglia, simbolo di rinascita, ed il segno stilizzato dell’ariete, che segna l’inizio della primavera ed il rinnovarsi della natura.
“Pochi passi in discesa e la casa di Sciola ve la trovate davanti!” aveva detto il barista. Certo, ma non aveva specificato percorrendo quale delle stradine che formano la piazzetta, tutte in leggerissima discesa. Seguiamo i murales davanti a noi, ma dopo un centinaio di metri torniamo indietro, perché niente ci rimanda a Sciola. Non si vede nessuno a cui chiedere: né un passante, né una finestra aperta, né un negozio o una bottega.
Imbocchiamo dunque un’altra strada, fatta anch’essa di facciate decorate, di portali tutti rigorosamente sbarrati, tranne uno che si affaccia su un cortile dove è parcheggiata una macchina con targa francese. Non ci sono né campanelli né nomi. Proseguiamo sudati sotto un sole impietoso, fino al termine della strada. Di case museo non vediamo traccia. Torniamo indietro con la sensazione che qualcosa ci sia sfuggito. Ci guardiamo attorno e Manuela nota, sul cardine superiore dell’unico portone aperto, una specie di quaderno spiegazzato che pende appeso ad una cordicella. Mi avvicino, lo apro e leggo: “Il giardino delle sculture non è al momento visitabile, per modifiche dell’allestimento”. Dunque è questa la casa di Sciola, ma che ci fa la macchina francese?
Entriamo con discrezione nel cortile che, angusto all’ingresso, si allarga dopo pochi passi ed introduce in un modesto giardino, invisibile dalla strada, occupato quasi interamente da tettoie sotto le quali banchi da lavoro e scaffali sono ingombri di pietre, di sculture, di arnesi, di reperti di ogni tipo. E’ l’atelier all’aperto di Pinuccio Sciola.
Entriamo dunque chiedendo a voce alta il permesso, ma non c’è nessuno a risponderci. Anche l’atelier è deserto. Così ci aggiriamo affascinati in questo cosmo solo apparentemente caotico, dove ogni passo cela una sorpresa. Sculture in legno antropomorfe, tre in particolare affastellate una sull’altra: un Cristo sofferente, un impiccato colto nello spasimo dell’agonia, con la corda ancora al collo, un uomo dal volto sofferente che pare condividere lo strazio dell’altro. Allontano lo sguardo da quell’immagine inquietante e nel giardino, sotto il verde di una pianta, lo poso sulla figura serena ed ieratica di una Madre seduta col bambino in grembo, i capelli raccolti nella crocchia tradizionale delle donne sarde, scolpita a grandezza naturale in una pietra di caldo color ocra. La scultura possiede una statica sacralità, come emersa dal profondo dei millenni, dal culto ancestrale della Grande Madre di cui è intrisa la terra e la roccia dei Sardi. La fissità dello sguardo della Madre e del Figlio evoca antiche immagini ellenistiche di Iside col piccolo Horus in braccio, o quelle di medievali Madonne col Bambino.
Poi tutto attorno gli scaffali straripano di sculture di pietra: volti, pinnacoli, lastre traforate come merletti. Ed ecco vedo dovunque le pietre che cantano, di tutte le forme, di tutte le tonalità, con le scanalature regolari come le corde di un violino, come i tasti di un pianoforte. Le guardo e lascio le nocche di una mano scorrere su quei tasti di pietra, dai quali si leva allora un suono flebile ed armonioso: la pietra parla. Prendo una scaglia di pietra e la passo sulle scanalature: il suono si fa intenso e si modula seguendo la traccia della mano. E’ una sensazione emozionante. Percorro le sculture, ogni tanto estraendone i suoni e mi trovo nuovamente sul cortile.
“Cerchi Pinuccio Sciola?” mi sento apostrofare con gentilezza in un italiano dall’accento forestiero. Mi volgo e vedo tre persone che ci guardano, ma non riconosco i lineamenti dell’artista. Sono i proprietari dell’auto francese.
“Si”, rispondo.
“Dovrebbe esserci. C’è la macchina? Se c’è la macchina deve esserci”.
Non ci sono altre auto oltre a quella dei francesi.
“Deve essere uscito, allora”, prosegue l’uomo.
“Hai visitato il giardino delle sculture?” mi chiede ancora.
“Ma non è chiuso?” domando di rimando, ricordando il cartello sbiadito sulla porta.
“Chiuso?” il francese è perplesso. “No, no, tutti possono entrare. Devi andarci, è bellissimo. Se vuoi ti mostriamo noi la strada. Segui la nostra macchina”.
Siamo venuti apposta per vedere la casa e soprattutto il giardino, che sappiamo essere distante dall’atelier: un aranceto di proprietà di Sciola, disseminato di sculture. Così seguiamo i francesi, che ci lasciano di fronte ad una strada sterrata: “E’ là in fondo. Devi solo girare e andare a zig zag fra le piante…”, mi dice sorridendo prima di andarsene.
Il giardino.
Deserto anch’esso sotto il sole.
In fondo allo stradello polveroso, fra bassi alberelli da frutto, il campo straripa di pietre di tutte le dimensioni. Percorriamo con lo sguardo un breve piazzale, circondato da una corona di pietre infisse, come un campo bretone di menhir megalitici, come una piccola Stonehenge sarda. Comprendo allora come l’arte di Sciola affondi le sue radici nel profondo della terra di Sardegna, in una cultura megalitica fatta di betili e di stele che lì non è mai scomparsa: anche oggi i giardini, i campi e gli stessi ingressi delle case sono spesso contrassegnati da enormi pietre oblunghe infisse nel suolo.
E’ la cultura delle Tombe dei Giganti, la cui ampia stele centrale, accompagnata da altre più piccole disposte a semicerchio, accoglieva il sole al solstizio di inverno. Era il momento in cui per gli antichi magicamente si spalancava la Porta degli Dei attraverso la quale, sui raggi dell’astro, le anime dei morti risalivano alla dimora celeste.
E’ la cultura del nuraghe, la torre di pietra che si ergeva verso il cielo, forse fortezza, ma soprattutto ombelico sacro della comunità, asse cosmico nella cui verticalità le energie ctonie, racchiuse e incanalate dal cono di pietra, si congiungevano con quelle siderali manifestando all’interno tutta la loro potenza. Questa allentava le barriere del tempo ed il capo, il padre sacerdote appoggiato al bastone sacro, poteva ascoltare nella camera della torre la voce degli antenati.
Così non mi meraviglia scorgere di fronte ai betili del giardino la statua del Padre, scolpita da Sciola nella stessa pietra calda di quella della Madre che abbiamo visto proteggere la casa studio. Il Padre è raffigurato come un anziano, la folta barba che ho scorto in tante foto di famiglie sarde di fine Ottocento, il mantello tirato ad avvolgere la testa come i sacerdoti dell’antica Roma, il corpo leggermente incurvato sul bastone sacro che l’uomo tiene stretto davanti a sé con entrambe le mani. Una figura ieratica ed antica è questa, che ricorda i bronzi votivi della civiltà delle torri, come se il tempo in queste migliaia di anni non fosse trascorso.
La Madre e il Padre ha scolpito Sciola, dando loro le fattezze dell’antica civiltà pastorale; la Donna posta a proteggere la porta della casa – grembo, l’Uomo a custodia del campo aperto delle pietre. Il principio maschile e quello femminile dunque, il ricettacolo domestico e la pietra protesa verso il cielo, il grembo della madre terra e l’aria fecondatrice di vita.
Più in là, fra le piante, giace una foresta di pietre, di tutte le forme e dimensioni, su piedistalli che le innalzano dal suolo. Le pietre sono lavorate, scarnificate in lame verticali o in scacchiere regolari, come le corde di un’arpa o la tastiera di uno strumento musicale. Così le pietre si aprono e rivelano un’anima sottile, dialogando con il vento di maestrale che le abbraccia e le avvolge, traendone lo spirito.
Con una scaglia di pietra percorriamo le lame ed ascoltiamo l’incanto della Materia che si scioglie in suono, in melodia, in canto. Ogni pietra ha il suo suono, acuto, sordo, alto o basso che, evocato, emerge come sublime armonia e si perde nel vento. La pietra, che per l’osservatore disattento pare la più inerte fra le materie, si rivela invece anch’essa un’entità viva, densa di uno spirito sottile che attende solo di esserne tratto. Sciola lo estrae sotto forma di musica, ma ricordo un artista fiorentino del primo Novecento, Umberto Bartoli, che scrutava le pietre ed i ciottoli del fiume e ne intravedeva lo spirito sotto forma di volti o di figure, che dipingeva poi sulla tela. Nei suoi ciottoli antropomorfi riconosco la stessa anima delle pietre di Sciola. Non ho dubbi che i maestri scalpellini del Medio Evo scorgessero anch’essi l’anima delle pietre e le lavorassero assecondandone i canali invisibili dell’energia vitale, così come i maestri muratori le disponevano nelle mura delle cattedrali traendone silenziosi accordi sinfonici.
Ascoltando il miracolo della pietra che canta, ho di colpo la consapevolezza che tutta la materia vibra all’unisono attorno a noi ed in noi, sospinta da una medesima energia spirituale in una danza perenne, che segue accordi armonici sempre uguali. Come recita il Libro della Sapienza, tutto nel cosmo è stato infatti disposto secondo numero, misura e peso. Come intuì Platone, il Mondo ha davvero un’Anima. Solo la sensibilità di un maestro come Pinuccio Sciola, erede di una civiltà antica, sa mostrarci il riflesso incantato di quest’Anima.